Startup: 4 storie di clamorosi fallimenti e cosa ci insegnano

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È come stare su un’altalena. La vita di uno startupper nei primi anni è un continuo equilibrio tra il successo e la caduta. I fallimenti sono all’ordine del giorno: chiudono “bottega”il 90% delle startup. Le ragioni possono essere varie: finiscono i soldi, liti nel team, tecnologie che cambiano, un errato modello di business.

La buona notizia è che il fallimento è un buon viatico (forse il migliore) per imparare in fretta e ottenere successo. Si può apprendere molto dagli errori degli altri e per questo motivo abbiamo deciso di analizzare quattro casi di fallimenti clamorosi. Racconteremo di progetti innovativi che hanno ottenuto la fiducia degli investitori (a suon di milioni) e anche dei consumatori. Eppure, non è bastato a resistere alle insidie del tempo. Ecco chi sono i protagonisti e come mai sono finiti dalle “stelle” alle “stalle”.

BeMyGuru: quando il team non è ben formato

Jegor Levkovskiy

BeMyGuru è un caso italiano di una realtà che parte con il piede giusto, ma poi non riesce a decollare e finisce piano piano per frantumarsi al suolo. L’idea di Jegor Levkovskiy era quella di creare un sito per aiutare le startup a trovare online i consulenti giusti. La startup iniziava davvero bene il suo percorso, più di 200 esperti qualificati in tante macroaree, l’ingresso in un incubatore famoso come Luiss Enlabs, un contributo di 80mila euro tra cash e servizi. Eppure, questi elementi non sono riusciti a lanciare il business nel tempo. Ecco perché.

Il fallimenti di BeMyGuru è dovuto a due elementi essenziali: il primo un modello di business che non ha saputo resistere ai primi feedback negativi. I tutor di Luiss Enlabs hanno spiegato al team che non era saggio puntare su un cliente finale come le startup che notoriamente sono a corto di soldi. La startup ha poi cercato di puntare sulle PMI, ma si trattava di un mercato con logiche molto diverse ed erano impreparati ad affrontarlo. Il secondo è stata l’incapacità del team di resistere ai primi motivi di stress. Intervistato Jegor ha sottolineato che “passavano più tempo a risolvere beghe tra loro, che a risolvere i problemi del modello di business”. BeMyGuru dimostra come formare un buon team sia fondamentale. Non servono solo le competenze, ma persone disposte a collaborare e a mettersi in gioco, soprattutto nei momenti di difficoltà che una startup ciclicamente è costretta ad affrontare.

Powa: quando i soldi non nascondono i difetti

Powa era una startup che pareva destinata alle stelle con le sue soluzioni sul digital payment. L’aveva creata Dan Wagner, un imprenditore che ci ha creduto così tanto da sborsare di tasca sua 20 milioni di dollari. Con il tempo la fintech ha fatto incetta di soldi raccolti: in totale oltre 176 milioni di dollari, con la startup che era entrata rapidamente nel regno degli unicorni con una valutazione di ben 2,7 miliardi di dollari. Insomma, i presupposti per il successo c’erano tutti. Mesi primi della bancarotta, il Ceo svelava un accordo con China Union Pay, l’unico emettitore di carta di credito autorizzato nella Repubblica Popolare Cinese, e la fintech poteva così entrare in un mercato immenso. Eppure, tutto è finito in un mare di sabbia, con l’ingresso in amministrazione controllata e lo smembramento della compagnia. Ma come è stato possibile tutto questo?

Dan Wagner

Anche qui i motivi del fallimento sono tanti, ma alcuni pesano più di altri. Come la mancanza di trasparenza e l’incapacità di creare un prodotto di vero appeal sul mercato. Un’inchiesta del Financial Times ha poi dimostrato come il Ceo avesse gonfiato di molto le aspettative, come ad esempio per l’accordo con China Union Pay che è mai avvenuto. Uno specchietto per le allodole che nascondeva i grossi problemi dell’azienda, soprattutto quelli legati al prodotto. PowaTag, il servizio innovativo che avrebbe dovuto permettere ai consumatori di concludere acquisti via smartphone direttamente in negozio o attraverso una scansione su una superficie o uno schermo, non ha mai davvero funzionato. La startup ne era a conoscenza e, per un periodo, ha provato a ripiegare su Powatag un pagamento tramite QR. Ma questo era poco usato e non poteva poi fare la differenza. Ormai era troppo tardi per rimettere il “treno” sui giusti binari. La storia di Powa dimostra che i soldi non bastano: senza un buon lavoro sul prodotto nel tempo, anche la startup con le casse più piene è destinata al fallimento.

Tutorspree: quando un algoritmo ti rovina la festa

Lanciato nel 2011, Tutorspree di Josh Abrams era una piattaforma che permetteva ai genitori di trovare tutor per i loro figli in modo veloce, in pochi click. La startup, chiamata l’Airbnb del tutoring, ha raggiunto in soli due anni numeri invidiabili: 7mila tutor, 1,8 milioni di dollari raccolti (venture come Sequoia Capital) e aveva anche una base di circa 1 milione di utenti su cui poter contare. A questo va aggiunto che la startup era inserita all’interno di uno dei programmi di incubazione migliori al mondo, quello di Y Combinator e quindi non mancava di consigli di manager di grande esperienza. Soldi, clienti, un business che pareva funzionare, i migliori venture e mentor su cui poter contare, eppure dopo tre anni la startup è costretta a chiudere i battenti. Ma cosa è successo?

Tutorspree è l’esempio più significativo di come la mancanza di una programmazione possa portare una buona idea nel dimenticatoio, di quella che si può tradurre nel gergo delle startup come “vision”. Nel caso specifico, è bastato che Google modificasse il suo algoritmo, nel 2013, per ridurre il traffico sulla piattaforma dell’80%. L’errore di Tutorspree era stato infatti quello di contare solo sulla strategia Seo per ottimizzare il sito nel ranking del motore di ricerca. L’uso di un solo canale di promozione si è rivelato poi fallimentare. È mancata la vision, la capacità cioè di guardare una questione a 360 gradi.

Quirky: il freno a mano della troppa ambizione

Sai quanto ha raccolto Quirky? 170 milioni di dollari (buttati al vento). Eppure c’erano tutti i presupposti per uno strepitoso successo per la startup di Ben Kaufman. Lo stesso Ben aveva già fondato due startup, l’idea era originale e mai vista prima. E tra gli investitori c’erano venture come Andreessen Horowitz e General Electric. Cosa si era inventato Kaufman con Quirky? Una piattaforma dove la community sceglieva quali tra le proposte dell’azienda valeva la pena produrre. Un modello dove tutti partecipavano alla fase creativa e poi, sulla base del loro contributo, condividevano i ricavi. L’obiettivo ambizioso di Quirky era quello di produrre 20-30, fino a 50 nuovi prodotti l’anno, attraverso il sistema “comunitario” che abbiamo illustrato. Forse troppi, come poi il fallimento dell’azienda ha dimostrato.

Le ragioni del fallimento di Quirky sono davvero tante, ma possiamo concentrarci su due su tutte: la cieca ambizione e la mancanza di focus. Pensare di produrre 50 prodotti l’anno con tutto quello che comporta in termini di campagne di marketing, distribuzione e servizio ai clienti, è davvero troppo per una startup. Inoltre, le linee di design create avevano una grossa pecca: quella di perdere di vista il target. Ogni startup ha bisogno di identificare perfettamente chi è il suo cliente. Quirky ha smesso di mettere al centro le persone che compravano i loro prodotti ed è stato questo il peccato originale che ha condotto al fallimento.

Nel febbraio 2016 Quirky pubblica sul suo blog un post in cui si annuncia un nuovo proprietario della piattaforma, il gruppo Q Holdings LLC, che sta ad oggi provando a rilanciare il servizio.

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