MASSIMO BOTTURA, DALLA MEMORIA AL FUTURO: ECCELLENZA E PRECISA IDENTITÀ PER OGNI PROGETTO

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La sua cucina è spesso descritta come un dialogo tra memoria e futuro. Quanto conta la narrazione nella costruzione di un piatto?

La narrazione è l’anima invisibile di ogni piatto. Non cucino solo ingredienti: cucino storie, ricordi, emozioni. Ogni piatto nasce da un dialogo tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare.

La memoria è la mia radice: il profumo del ragù di mia nonna, la crosta bruciata della lasagna rubata da bambino, ma il futuro è la mia direzione. Solo attraverso il racconto, il gesto si trasforma in cultura. Un piatto senza narrazione è un oggetto estetico; un piatto con una storia diventa un atto poetico, un modo per condividere identità, sogni e responsabilità.

Lei ha trasformato ingredienti semplici in icone culturali. Come si costruisce un linguaggio gastronomico che parli al mondo restando profondamente italiano?

Costruire un linguaggio gastronomico significa prima di tutto imparare ad ascoltare la propria lingua madre. La cucina italiana è fatta di dialetti, di gesti, di silenzi. È la nonna che impasta, il contadino che raccoglie, il tempo che trasforma.

Io ho cercato di tradurre tutto questo in un linguaggio contemporaneo, capace di parlare al mondo senza perdere l’accento dell’anima. Per farlo bisogna conoscere a fondo la tradizione, non per copiarla ma per reinterpretarla.


Eduardo De Filippo diceva: “Se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma; ma se ci serviamo della tradizione come di un trampolino, è ovvio che salteremo assai più in alto.” Ecco, la mia cucina è proprio questo salto: un atto d’amore verso le radici, ma con lo sguardo rivolto al futuro.

Quando un piatto come La parte croccante della lasagna, Oops! I dropped the lemon tart o Camouflage riesce a far sorridere, pensare, emozionare qualcuno dall’altra parte del mondo, allora capisci che la cultura italiana non è mai localista: è un linguaggio universale fatto di memoria, ironia e bellezza.

Parla al cuore, prima ancora che al palato.

Da Osteria Francescana a Gucci Osteria, ogni progetto sembra riflettere un’identità culturale precisa. In che modo la cucina può essere uno strumento di diplomazia e di connessione tra le persone?

La cucina è la forma più antica e autentica di diplomazia culturale.

Prima ancora delle parole, c’è sempre stato il gesto di condividere il pane. Intorno a una tavola, le differenze si sciolgono e anche un semplice piatto può diventare un ponte tra mondi diversi.

Osteria Francescana, Gucci Osteria, i Refettori di Food for Soul: luoghi diversi, ma mossi dallo stesso spirito, quello di costruire relazioni attraverso la bellezza, la cultura e l’ospitalità.

Osteria Francescana

Quando cucini per qualcuno, non gli stai solo offrendo da mangiare: gli stai dicendo ti vedo, ti rispetto, voglio conoscerti.

Per me la cucina è un atto di empatia e di fiducia, una forma di linguaggio universale capace di unire artisti, contadini, architetti, musicisti, designer, e di raccontare l’Italia nel mondo non come un museo, ma come un laboratorio vivo.

Ogni piatto è una conversazione. Ogni boccone, un messaggio di pace.

Con Food for Soul ha portato avanti una rivoluzione etica nella cucina. Come si traduce oggi la responsabilità sociale di uno chef in un mondo sempre più interconnesso?

La responsabilità sociale di uno chef oggi non si misura solo nei piatti che prepara, ma nelle domande che sceglie di porsi.

Cosa cucino? Per chi cucino? Con quali risorse, con quale impatto, con quale consapevolezza?

Con Food for Soul abbiamo voluto dire al mondo che la bellezza non è un lusso, ma un diritto.

Che anche una zuppa fatta con il pane secco può restituire dignità, se servita in un luogo che rispetta la persona e la sua storia.

Che lo spreco alimentare non è solo una questione di economia, ma di etica e di cultura.

Oggi viviamo in un mondo connesso, ma non sempre unito.

La cucina può ricucire queste fratture, trasformando lo scarto in opportunità, la solitudine in comunità, la fame in conoscenza.

Essere chef, per me, significa essere cittadini del mondo: custodi di una memoria, ma anche attivatori di cambiamento.

Non cuciniamo solo per nutrire. Cuciniamo per prenderci cura.

Il pane è oro ha insegnato che lo spreco è una questione di sguardo, non solo di risorse. Qual è, secondo lei, la prossima frontiera della sostenibilità in cucina?

La prossima frontiera della sostenibilità non è solo tecnica, ma culturale.

Non basta cambiare gli ingredienti: bisogna cambiare lo sguardo, il modo in cui pensiamo il valore delle cose. Con Il pane è oro abbiamo imparato che lo spreco non nasce in cucina, ma nella mente: quando smettiamo di vedere la bellezza in ciò che è imperfetto, quando dimentichiamo che ogni buccia, ogni crosta, ogni rimasuglio porta con sé una storia. Oggi la vera sfida è andare oltre la materia, costruire sistemi di relazione, economie circolari, filiere che rispettino le persone, i territori, il tempo.

Sostenibilità significa armonia: tra chi produce e chi cucina, tra chi serve e chi mangia, tra natura e cultura.

È la capacità di creare valore senza distruggere. Di restituire più di quanto prendiamo.

Il futuro sarà sostenibile solo se sarà anche bello, inclusivo e consapevole. Perché la bellezza, quando è condivisa, diventa la forma più alta di sostenibilità.

Al Gatto Verde rappresenta la sintesi tra estetica ed etica. In che modo la bellezza può essere sostenibile e la sostenibilità può diventare bellezza?

Al Gatto Verde, la bellezza non è decorazione: è un atto di responsabilità condivisa. Insieme a Jessica Rosval, abbiamo costruito un luogo dove estetica ed etica si fondono naturalmente, dove ogni scelta, dal fuoco alla luce, dal piatto all’architettura, nasce da una stessa visione: dimostrare che la cucina può essere sostenibile senza rinunciare alla meraviglia.

Jessica ha saputo dare forma e voce a questa idea con una sensibilità straordinaria. Ha trasformato il fuoco in linguaggio, la brace in strumento di rigenerazione, il gesto quotidiano del cuoco in un atto poetico.

La sua cucina parla di equilibrio, di rispetto, di libertà: celebra la forza della natura e la fragilità dell’uomo, tenendole insieme in un’unica fiamma.

Al Gatto verde

La bellezza, per noi, non è solo ciò che si vede, è ciò che si sente quando tutto è in armonia: la materia, il tempo, le persone.

E la sostenibilità diventa bellezza quando smette di essere una regola e diventa un’emozione.

Al Gatto Verde il fuoco non brucia, illumina.

È la fiamma di una nuova generazione, guidata da una donna capace di trasformare l’etica in energia creativa, e la sostenibilità in una forma di poesia contemporanea.

Il Ristorante Cavallino a Maranello, legato alla storia di Ferrari, rappresenta un’icona di tradizione e innovazione. Come concilia l’eredità simbolica del marchio Ferrari con la sua visione etica e creativa della cucina?

Il Ristorante Cavallino è un luogo dove la storia corre ancora, ma con il passo del presente.

Ferrari rappresenta l’eccellenza italiana, la capacità di trasformare un sogno in movimento.

Quando siamo arrivati a Maranello, il nostro obiettivo non era solo celebrare quel mito, ma restituirgli un’anima umana, fatta di memoria, convivialità e responsabilità.

Con Riccardo Forapani e Virginia Cattaneo, abbiamo costruito una cucina che dialoga con la leggenda senza restarne prigioniera.

Riccardo porta con sé anni di esperienza all’Osteria Francescana, la precisione, il rispetto per il dettaglio, la capacità di trasformare la tradizione in gesto contemporaneo. Virginia aggiunge sensibilità, equilibrio e un’energia giovane che rende tutto più luminoso.

Insieme rappresentano la nuova generazione di cuochi italiani: curiosi, colti, e profondamente legati al territorio.

Ristorante Cavallino

Al Cavallino la velocità non è frenesia, ma armonia: è la capacità di andare lontano restando fedeli alle proprie radici.

Ogni piatto racconta questa tensione, tra memoria e futuro, tra motore e cuore, tra la potenza del marchio e la delicatezza del gesto umano.

La nostra visione etica e creativa trova qui la sua sintesi: trasformare l’adrenalina in accoglienza, la performance in cultura, la leggenda in esperienza condivisa.

Perché anche la velocità, come la cucina, ha senso solo se sa emozionare senza dimenticare da dove parte.

Da imprenditore culturale, lei ha saputo trasformare la cucina in un ecosistema di esperienze. Qual è oggi la sua missione più urgente?

La mia missione più urgente oggi è trasformare la consapevolezza in azione. Abbiamo raccontato tanto, costruito molto, ma ora serve un passo in più: far sì che la cultura diventi un motore concreto di cambiamento sociale.

Casa Maria Luigia

La cucina, per me, è sempre stata un linguaggio culturale, non solo gastronomico. Attraverso l’Osteria Francescana, Casa Maria Luigia, Franceschetta, i Refettori di Food for Soul, Tortellante, Al Gatto Verde, Cavallino, ho cercato di costruire un ecosistema dove etica ed estetica convivono, dove il bello serve al bene.

Oggi sento il bisogno di restituire…. cultura.

Soprattutto ai giovani cuochi ma anche ai produttori e alle comunità. Di ricordare che la creatività ha senso solo se genera valore condiviso. La mia missione non è più soltanto cucinare piatti, ma nutrire idee.

Accendere fuochi che non si spengano con un servizio, ma che continuino a illuminare chi crede nella forza della cultura, della bellezza, della solidarietà. Perché il vero futuro non è nei ristoranti, ma nelle relazioni che creiamo attorno a una tavola.

E se c’è un sogno che ancora mi muove, è questo: dimostrare che cambiare il mondo, a volte, può cominciare da un piatto di pasta.

L’arte, la musica e la letteratura sono linguaggi che spesso accompagnano la sua ispirazione. In che modo alimentano la sua creatività quotidiana?

L’arte, la musica e la letteratura sono la mia linfa vitale. Non sono ispirazioni esterne, ma ingredienti del pensiero.

Quando ascolto Thelonious Monk o Miles Davis, sento nella loro improvvisazione la stessa libertà che cerco in cucina: la capacità di rompere le regole conoscendole a fondo.

Quando guardo un’opera di Joseph Beuys o di Ai Weiwei, ritrovo l’idea che l’arte possa essere un gesto sociale, una scintilla che trasforma lo sguardo sul mondo. Ogni giorno porto tutto questo con me in cucina.

Un piatto può nascere da un verso, da una nota, da un colore.

La musica mi insegna l’armonia, l’arte mi insegna la visione, la letteratura mi insegna l’attesa.

Insieme costruiscono un paesaggio interiore che poi diventa gesto, forma, sapore. Alla fine, cucinare è come comporre o scrivere: si parte da un’emozione e si cerca di darle una forma.

E se riesci a far vibrare quella emozione anche solo per un istante, allora, come nella musica o nell’arte, hai trovato la tua verità. Dopo trent’anni di successi, premi e riconoscimenti, cosa la spinge ancora a reinventarsi e a cercare nuovi confini per la cucina italiana?

Dopo trent’anni, ciò che mi spinge ancora è la curiosità.

La voglia di continuare a imparare, di restare inquieto, di non accontentarmi mai e di continuare a porsi domande.

Ogni giorno entro in cucina con lo stesso stupore di quando ero ragazzo a Modena, con la testa piena di sogni e il cuore pieno di dubbi.

Il successo non è un punto d’arrivo, ma un punto di partenza: ti dà la responsabilità di usare la tua voce per aprire strade, non per chiuderle.

Per me reinventarsi significa proprio questo: trasformare la memoria in energia creativa, far dialogare l’Italia con il mondo senza perdere la sua anima.

La cucina italiana è un patrimonio vivente, un linguaggio che cambia con chi lo parla. La cucina italiana non è solo un insieme di ricette: è un rito collettivo, un gesto d’amore che unisce le persone attraverso il tempo e le generazioni.

È la mano che impasta, il profumo che attraversa le case, la voce che chiama tutti a tavola.

Cucinare, per noi italiani, significa prendersi cura degli altri, della famiglia, degli amici Intorno a un piatto si costruiscono comunità, si condividono storie, si trasmettono valori.

Per questo credo che la cucina italiana sia molto più di un patrimonio gastronomico: è un linguaggio universale di bellezza e umanità, capace di trasformare il nutrimento in emozione e la tavola in un luogo di incontro e di pace.

A cura di Christian Gaston Illan

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