Berlino, capitale europea delle Start Up

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Creatività, stile di vita e giovani: le 3 chiavi del successo di Berlino, capitale europea delle start up.

Città giovane e creativa, Berlino probabilmente ruberà a Londra il titolo di capitale europea delle start up entro qualche anno.Da centro mondiale della trasgressione e della cultura underground, la capitale tedesca si è evoluta in uno dei volani più importanti della nuova imprenditoria digitale e tecnologica, con all’attivo oltre 5000 start up e colossi del calibro di Zalando.

Nel 2012, le startup di Berlino superavano abbondantemente le 500 unità. Nel 2015, erano già più di 5000, crescendo al ritmo di una nuova startup ogni 20 minuti. Oggi nella capitale tedesca ci sono ben 128 startup per ogni 10.000 abitanti (Fonte: theheureka.com/infographic-berlin-startup), che solamente nel settore del digitale hanno generato oltre 8.9 miliardi di euro di fatturato (Fonte: theheureka.com/senate-startup-report). Secondo Mc Kinsey, l’ecosistema berlinese delle startup potrebbe arrivare a generare fino a 100.000 posti di lavoro nel 2020, e Berlino rubare la palma a Londra come città numero uno delle startup europee (Fonte: www.startupblink.com/blog/berlin-startup-ecosystem). Sono dati decisamente sorprendenti se si pensa che Berlino è ancora tra i più poveri lander tedeschi e tra quelli con gli indici di disoccupazione più alti (oltre il 10%). Si dirà che la fame aguzza l’ingegno. Ma in Germania, complice il welfare avanzato e la non esibita ma massiccia generosità tedesca verso i fratelli dell’ex DDR, la fame non c’è. Come nel del resto non ci sono particolari motivi macroeconomici per investire nel placido Brandeburgo piuttosto che nella brulicante e frenetica Canton. In questo senso, Berlino è un esempio di come a volte i concetti classici dell’economia su ciò che deve accadere possano essere veramente fuorvianti. Le cause del successo di Berlino sono da cercare altrove. E a mio avviso le parole chiave per capire il fenomeno Berlino sono “creatività”, “stile di vita” e “giovani”.

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Tutto iniziò con il rock and roll
Caduto il muro, Berlino ridiventa capitale della Germania nel 1990, portando in dote al paese una città spaccata in due dove la parte ovest, da decenni “capitale di se stessa”, o meglio, della Germania ribelle e underground, ha più punk e centri sociali che abitanti, mentre la parte est ha ancora i buchi vuoti lasciati dalle case distrutte dalla guerra frammiste al classicismo imponente della architettura stalinista.
Lavoro, non ce nʼè. Negli anniʼ90 a Berlino investono solo le immobiliari, trascinate dallʼuragano di finanziamenti che il governo federale mette a disposizione per ricostruire lʼex DDR. I ministeri restano ancora nellʼex capitale Bonn, ci vorranno ventʼanni per completarne il trasferimento. La città è quindi povera e coi prezzi bassi, basta pensare che ancora nel 2011/12, era possibile trovare dei monolocali in vendita a soli 30 mila euro, il prezzo di un garage, e una birra da 66 cl costava 20 centesimi di euro. Oggi, quei prezzi sono almeno raddoppiati.
Un posto, si dirà, perfetto per i pazzi, i poeti e i sognatori. Che infatti accorrono a frotte, e trasformano Berlino nella capitale mondiale degli artisti e dei giovani. È negli anniʼ90 che la città si riempie di “art factories”, alcune destinate ad avere successo mondiale come il Tacheless, di musica elettronica, di locali underground come il famoso bar25 o il celeberrimo Berghaim, che scala le classifiche delle discoteche top del mondo fino a raggiungere il terzo posto.
Si stima che gli artisti in città siano più di 6000, e chi ha avuto la fortuna di essere giovane a Berlino in quegli anni ricorda come lʼarte fosse qualcosa di normale, che si respirava per le strade. Oggi, ne restano i graffiti sui muri delle belle case inizio secolo di Prezlauerberg, visitabili con tour organizzato con tanto di guida ufficiale per circa dieci euro.

I tedeschi si vergognano
Si dice che in Germania non cʼè città meno tedesca di Berlino, di cui ancora oggi i tedeschi si vergognano. Le strade non sempre pulite, le ferrovie che a volte si bloccano, lʼaeroporto mai finito in una vicenda di verifiche sulla sicurezza di sapore italiano, una certa indolenza dei berlinesi, tutto questo in effetti ricorda più il vizio latino che la virtù teutonica. E infatti, ancora oggi i soldi dei tedeschi corrono verso la solida Francoforte e lʼoperosa (e pulita) Monaco.
Chi viene a Berlino sono i giovani, soprattutto stranieri. Nel 2014, secondo i dati del Comune, ben il 40% della popolazione della città aveva meno di 35 anni. Circa 174.000 persone erano in media emigrate a Berlino ogni anno nel decennio, e di questi circa 100.000 sono stranieri. Gli italiani in città passano da meno di 10.000 nel 1990 a più di 20.000 nel 2014. Un successo unico, condiviso con Barcellona, altra città cult emersa nella nuova Europa degli anni ʻ90. “Arm, aber sexy”, “povera ma sexy” dirà di Berlino lʼex sindaco Klaus Wowereit nel 2004 con una certa fierezza.
Non è difficile capire cosa attira questi giovani: lo stile di vita (ci sono a Berlino più parties che a Ibiza), la tolleranza (Berlino è la città più gay friendly dʼEuropa ed è possibile ancora oggi fare nudismo in pieno centro), la vivacità e lʼatmosfera che artisti e creativi venuti da tutto il mondo hanno saputo creare in questa città dove è collocata una delle “art scenes” più intense del pianeta. Certo, la realtà è diversa dal mito. La verità è che integrarsi a Belino non è facile. Anche se la città offre molto in tema di vibrazione e stimoli, il lavoro è poco e la sua economia cronicamente depressa, restando il Brandeburgo un poʼ un meridione tedesco, che vive di generosi sostegni da parte del governo federale. E infatti, molti non ce la fanno. Sempre nel 2012, poco meno di 100.000 persone hanno lasciato Berlino per continuare la loro avventura in posti come Monaco o Stoccarda. Un dato che dimostra che per molti la capitale tedesca è solo una città di transito, dove si viene a cercare un qualcosa che forse cʼè, ma difficilmente si trova.

From local to global
È nel primo decennio del 2000 che si vengono a formare tutti gli elementi che stanno dietro il boom delle startup di Berlino. Una notevole concentrazione di creativi e di esperti del digitale (la città ha ben tre università), prezzi bassi, assenza di lavoro, ma anche assenza di molti servizi che soprattutto nella parte ex DDR mancano per ovvi motivi legati al comunismo.
Comincia un fenomeno tutto berlinese che è la colonizzazione di aree degradate dove manca tutto da parte di giovani, spesso con poco capitale, che aprono locali o posti di ritrovo, centri culturali o piccole società di servizi. Gradualmente, arrivano anche personaggi più agguerriti, che sapendo utilizzare finanziamenti pubblici o privati aprono istituzioni culturali, musei, gallerie dʼarte, ristoranti. Alcuni di questi posti, costruiti con mezzi di fortuna in puro stile arte povera o recuperando stabili abbandonati, diventeranno famosi, come il Cafè der visionaere o lʼarea di Cassiopeia a Revaler Strasse, e contribuiranno definitivamente a cementare il mito di Berlino nelle generazioni più giovani.
Non potevano certo mancare hackers e creativi del codice. Negli anni 2000 seguono ai primi romantici internet cafè i coworking, che in città subito spopolano, seguiti dai vari incubators e accellerators come Rock the net, Impact hub, o la celebre Beta house, che vengono a Berlino nella speranza di trasformare lʼenergia creativa della città in business.
Del resto, già nel lontano 1995 un gruppo di hacker avevano fondato il C base, vero e propria icona della città, una associazione no profit con lo scopo di diffondere la conoscenza digitale che oggi conta più di 500 iscritti ed organizza alcuni degli eventi più importanti della Berlino digitale ed artistica, come il freitfunk.net, e numerosi eventi legati a codice e computer nei suoi sotterranei arredati come una astronave di Star Trek.

Poteva funzionare un modello tutto giocato su arte povera, giovani, prezzi bassi, codice e creatività?
Parrebbe di sì, a giudicare dai numeri che abbiamo visto. Anche se si calcola che almeno un buon 80% dei tentativi di start up a Berlino siano falliti, e questa la dice lunga di come sia difficile fare impresa, nonostante la buona volontà.
Ma cʼè a chi è andata veramente bene. Ad esempio a Zalando, colosso della moda online fondata a Berlino nel 2008 ed ora una delle massime azienda della città. Con circa 3 miliardi di fatturato, Zalando è la prima corporation nata a Berlino che ha assunto una taglia globale. È presente in tutta Europa ed è quotata alla borsa di Francoforte. Zalando è la prova che nonostante tutto la formula berlinese del digitale più creatività può portare dei buoni frutti. Anche se non a tutti. Ma Zalando non è lʼunica grande società nata nella capitale tedesca nel decennio passato. Ricordiamo Soundcloud, piattaforma per la condivisione di file musicali, Sociomatic, una società Tech che opera coi big data che ora ha 200 dipendenti, 6Wunderkinder, software, acquistata ora da Microsoft. Fonte: www.startupblink.com/blog/berlin-startup-ecosystem

3 tra le più importanti startup sviluppate a Berlino: Zalando, Soundcloud e Sociomatic

Si torna a lavorare
Un fenomeno di proporzioni così grandi come lʼemergere dellʼecosistema delle start up berlinesi non poteva non essere notato dallʼeconomia istituzionale, che dopo il 2010 incomincia a interessarsi alle startup locali e, anche se con riluttanza, ad investire. Un esempio il colosso chimico e farmaceutico Bayer, che ha aperto in città il suo incubatore (www.colaborator.bayer.com/en/
index.php) e che ora fa da mamma imprenditoriale a circa 200 start up.
Del resto, solamente le startup permettono quella agilità di manovra per testare nuove idee e nuovi prodotti a costi e rischi contenuti chele mega corporations della old economy non hanno e non possono avere. Per questo motivo, anche a Berlino si è diffuso un fenomeno di integrazione verticale tra multinazionali e giovani imprese già conosciuto e sperimentato oltre oceano: le startup fanno da laboratorio, le multinazionali seguono e finanziano, per alla fine comprare lʼidea vincente. Con il secondo decennio del 2000, Berlino è tornata una città – quasi – normale, con un processo che i suoi critici hanno chiamato “Gentrification” , o imborghesimento, o per usare una parola della generazione degli ʻanta, riflusso.
Cosa è successo? Semplicemente la ex capitale del rock e della trasgressione si è messa a lavorare. I ministeri alla fine si sono trasferiti da Bonn, e i prezzi hanno cominciato a risalire. I locali realizzati secondo i dettami dellʼarte povera hanno quasi tutti chiuso, e ceduto il posto a ristoranti che ricordano il design di corso Como, mentre i personaggi improvvisati che incontravi a fare affari nei bar in riunioni organizzate con la celebre piattaforma Meetup ora hanno il loro impiego, spesso in una startup.
Nel 2013 chiudeva nel silenzio generale il Tacheles, il simbolo della Berlino creativa, ribelle e alternativa del dopo muro. La differenza con lʼItalia è che qui non cʼè stato nessuno sgombero della polizia e nessuna violenza; gli artisti hanno venduto a una banca tedesca che ha regolarmente ottenuto lʼarea a seguito di un fallimento, e molti di loro si son aperti il bar o la bottega coi soldi guadagnati. “Business is business”, dopotutto. La vicenda del Tacheles testimonia come questa città sorprendente sappia cambiare pelle, a volte così velocemente da lasciare tutti sbalorditi.
Nel 2014 incontrai a Berlino un signore tedesco di mezzʼetà che faceva il notaio e che era vestito con un giubbotto di pelle e i jeans. Gli chiesi se non considerava la chiusura di un posto come il Tacheles una perdita culture. Mi rispose che non aveva nostalgia della cantina umida dove suonava la chitarra elettrica quando era un ragazzino. Andare avanti, ma restando liberi di essere quello che si è: forse, quello che vuole insegnarci questa città giovane e vitale è soltanto questo.

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